La magia di camminare nell’arte
Da domenica 15 giugno e fino a venerdì 7 novembre ci sarà un’occasione in più per visitare le stupende valli dell’Appennino sopra Pistoia. Ha riaperto, infatti, all’interno dell’Oasy Dynamo, la OCA Oasy Contemporary Art and Architecture con un percorso immersivo ad anello ricco di opere, realizzate da protagonisti della scena contemporanea come Alejandro Aravena, Mariangela Gualtieri con Michele De Lucchi, Kengo Kuma, Quayola, David Svensson, Pascale Marthine Tayou e Matteo Thun.

Il percorso, nato sotto la guida artistica di Emanuele Montibeller, risponde alla domanda “Come abiteremo il mondo?” e si declina in molti aspetti, urbanistici, filosofici, culturali, ambientali. A dare vita alle esposizioni sono stati chiamati architetti e urbanisti di fama mondiale, che hanno pensato opere esclusivamente in situ, non solo adattandosi alle caratteristiche locali ma entrando proprio in una simbiosi profonda col luogo stesso.
Il percorso si presenta come le tappe di una narrazione: ciascuna installazione, ciascuna opera dialoga con le altre rilanciando il tema di fondo a declinandolo secondo la sensibilità, la provenienza geografica, la cultura di origine, l’esperienza umana e professionale di ogni artista e di ogni architetto coinvolto nel progetto.
Non ci sono risposte prestabilite: tutte le installazioni sollecitano più domande che risposte, forniscono esempi o prototipi di una possibile riorganizzazione del nostro “stare al mondo” e rappresentano in fondo le tappe o i tasselli di una narrazione aperta, dialogante, cogenerativa.
Davvero tanti gli artisti che hanno contribuito alla realizzazione delle tappe dello stupendo percorso; apre il sentiero Pascale Marthin Tayou, artista camerunense, la cui opera “Plastic bags” costituisce una denuncia accorata sulla destinazione degli scarti della iper-produzione occidentale e ci invita quindi a riflettere sulla relazione non solo fra uomo e ambiente, ma anche fra regioni diverse del mondo.

Subito dopo, camminando nella stupenda natura dell’appennino, incontriamo David Svensson che, con la sua “Home of the world” afferma che la questione ambientale non può essere affrontata solo nel recinto chiuso di ciascuna nazionalità o peggio ancora nazionalismo: serve un approccio aperto, che superi i confini, che smonti le rispettive appartenenze geografiche e culturali per rimontarle in una prospettiva dialogante con tutti.
Poi è il turno di Kengo Kuma, archistar assoluta, che, con il suo “Dynamo Pavillion”, propone un approccio aperto, oltre i confini, che richiama sensibilità molto diverse da quella occidentale, e dunque suggerisce di riconsiderare la relazione uomo-natura sulla base dei “vuoti” e dei silenzi, tema fondamentale di tutta la cultura orientale.
L’installazione dell’architetto giapponese, in acciaio e fibra di carbonio, si avviluppa fra gli alberi in una piccola radura, comparendo all’improvviso e quasi casualmente agli occhi delle persone: la struttura delle tre opere, anche grazie al materiale utilizzato, vibra al vento ed entra in consonanza con la natura circostante, in una relazione rispettosa, minimale, quasi immateriale.

Dall’oriente all’Italia, geograficamente il passo è lungo, ma le liriche altrettanto interessanti: con Michele De Lucchi, la narrazione diventa essa stessa opera d’arte: dalla relazione con il mondo si passa già alla dimensione di una relazione individuale con la natura, collocata però in un “non-tempo” che è quello proprio della mitologia. De Lucchi inverte qui il rapporto classico fra mito-rito-racconto, proponendo quest’ultimo all’inizio del processo. Tutto parte infatti da una lirica della poetessa italiana Mariangela Gualtieri, che consente alla particolare struttura di De Lucchi di ri-crearsi in modo diverso ad ogni ascolto. Il racconto dunque come fondamenta di una costruzione concepita appositamente in modo aperto, con una interazione senza interruzioni fra il dentro e il fuori.
Altro architetto italiano, altra opera: Matteo Thun si confronta con la dimensione del mito e del rito, immaginando una sorta di circolo di “dolmen” ,con una dimensione temporale che unisce passato e presente, già a partire dal titolo, “Fratelli tutti”.
Un omaggio all’enciclica “Laudato sii” di papa Francesco, la cui recente scomparsa conferisce a quest’opera un ulteriore accento di emozione e gratitudine. Con Matteo Thun si entra dunque nella questione della relazione fra tutti gli esseri umani, in quanto abitanti dello stesso pianeta, senza distinzioni e confini, in una dimensione spirituale, quasi mistica, assecondando la necessità di una profonda riconnessione con noi stessi e con il mondo.
Poco distante dal “recinto” di Thun ci si imbatte in altre strane pietre seminascoste dalla vegetazione, sassi neri simili a meteoriti, disposti casualmente a ridosso del bosco. “Erosions”, l’opera dell’artista italiano Quayola, interviene su pietre laviche con erosioni generate da un algoritmo e lavorate da una speciale macchina.

L’opera si ispira alla millenaria tradizione orientale delle scholars’ rocks, pietre naturali cesellate dall’uomo e trasformate in oggetti di contemplazione e venerazione estetica. Conoscenze millenarie, sapienza orientale, ricerca di sé e spiritualità formano così un intreccio narrativo denso di rimandi, che ricorre fra le varie opere.
Chiudiamo il percorso (e al tempo stesso, riapre): Alejandro Aravena che con “Self regulation” mette di fronte i visitatori a una scelta, non dichiarata esplicitamente, il cui esito riflette la concezione che ciascuno di noi ha del proprio rapporto con la natura e con se stessi. Non c’è una scelta giusta o sbagliata: l’opera intende proporre un percorso di individuazione di sé in rapporto al mondo.