- INFO POINT
- Di Silvano Lova
- Dove: Bologna
Camminando con la luce nell’anima
ProtagonistiSpesso e volentieri le interviste sono noiose, scontate, piene di autocelebrazione e prive di contenuti veri; insomma, una fonte di sconforto per l’intervistatore e una manna per i produttori di antidepressivi.
Quella che vi proponiamo oggi non è andata così: siamo stati a nella sede di Viabizzuno, per intervistarne il fondatore (anche se siamo certi che storcerebbe il naso a essere incasellato in un unico sostantivo, per quanto importante), Mario Nanni o, meglio il Maestro Nanni, uno che nella vita non ha mai smesso di cercare, con quel carattere inquieto che caratterizza i Romagnoli (quando si va oltre al semplice layer di ospitalità e apertura mentale).
Un uomo, Mario Nanni , difficile da incasellare, affabulatore certo, ma di quelli che, mentre li intervisti, capisci quasi subito che sotto la narrazione c’è un sottotesto profondo che, ogni tanto, fa capolino, non si si sa se lasciato trapelare volutamente in una sorta di ‘libera uscita dell’anima’ o proprio evaso senza l’autorizzazione del titolare del pensiero.
In un senso o nell’altro, l’intervista è di quelle soddisfacenti, un caleidoscopio (e non potrebbe essere diversamente dato che di luce si parla) di aneddoti, esperienze, visioni, che proviamo a riportare nero su bianco.
Disclaimer
L’intervista è stata realizzata da un po’ di tempo, troppo direbbero alcuni, ma quando si parla di Storie, non si ha mai una data di scadenza.
La passione di sperimentare
Per parlare della esperienza professionale o sarebbe meglio della filosofia di vita di Mario Nanni , si parte subito entrando nel vivo di un esempio; come potrebbe essere diverso, quando si intervista un uomo che vive incondizionatamente il proprio lavoro, incarnandosi ogni volta nei nuovi progetti con la convinzione che ognuno di questi è unico, eccezionale e quindi degno della massima attenzione (che spesso sconfina nelll’assolutizzazione dell’esperienza professionale). Si parte dalla regia e scenografia della Luisa Miller di Verdi. Come ci racconta Nanni : “Nel 2019, il direttore del Teatro Comunale di Bologna mi propone di curare la luce in un’opera, in particolare la Luisa Miller di Verdi; due fatti da ricordare: a quell’epoca avevo già lavorato per la Scala di Milano, quando Stéphane Lissner era soprintendente e direttore, e soprattutto sono molto appassionato della Lirica”.
"Dal primo confronto con direttore del Teatro Comunale, nato quasi come una chiacchiera fra amici, l’idea prende corpo e si concretizza nella stagione teatrale 2022. Non avendo mai fatto un’opera, avevo una certa perplessità nell’impegnarmi in questa avventura (di cui tra l’altro non conoscevo la trama), ma la curiosità e la voglia di sperimentale hanno presto preso il sopravvento”.
“Ho però chiesto al direttore di curare non solo la luce, ma l’intero allestimento, dai costumi alle scenografie, dai trucchi ai gioielli dei protagonisti fino alla regia. C’è un motivo profondo dietro questa richiesta: la luce è infatti l’unico elemento che è in grado di collegare tutte le varie componenti di un’opera teatrale”.
“La risposta del direttore è stata (forse con un po’ di incoscienza) positiva e ci siamo messi al lavoro; il risultato è stato accolto molto bene dal pubblico; devo dire che sono stato in quell’occasione molto fortunato di aver trovato un cast di professionisti davvero molto importanti e preparati”.
Torniamo alla luce, argomento della nostra chiacchierata: “La luce è l’unico elemento in grado di far vivere tutti gli altri, lo fa collegandosi con questi e interagendo in modo continuamente cangiante. Un uomo come me, curioso, che si occupa soprattutto di agricoltura, nello specifico di allevamento di maiali (sorride Nanni, ndr), dei lavori dell’elettricista e del falegname, deve assolutamente lavorare anche con la luce”.
“Solo quando tutte le arti si uniscono, si raggiunge l’Incanto, tutto si trasforma in poesia e il nostro lavoro diventa immediatamente più facile, quasi naturale. Una sorta di poesia di luce. Forte di questo pensiero, mi sono innamorato della luce fin da ragazzino; provenendo da una famiglia molto povera, mi ero appassionato a un gioco molto particolare, quello di costruire presepi: le statuine, le scenografie di questi mondi in miniatura, veri e propri racconti in pochissimo spazio. Questo gioco è andato avanti per diversi anni: avevo recuperato una serie di vecchi interruttori (le vecchie perette) e, nascosto sotto un telo, davo vita a condizioni di luce differenti: mattina, mezzogiorno, natività. Un lavoro impegnativo, dato che gli interruttori dovevano essere manipolati singolarmente per ottenere l’effetto voluto”.
“Da lì, proprio da sotto quel telo, è nata la mia passione per la luce; sono diventato elettricista e, passo dopo passo, ho formato la mia personale vita professionale (che è un moloch di tante vite diverse); nel mio percorso ho avuto la fortuna di aver incontrato alcuni maestri importanti, primo fra tutti Gabriele Basilico, che conosco quando avevo 33 anni (quando per me le fotografie erano quelle della Cresima o del Matrimonio). Nella prima mezza giornata di lavoro con lui, quando aveva scattato già 50 Polaroid e concluso due scatti, fondamentalmente distruggendo tutto quanto trovava sulla sua strada (sorride Nanni, ndr), ho capito che c’era un intero mondo che a me era del tutto sconosciuto”.
“Da allora siamo diventati amici, sempre in ottimi rapporti e oggi ritengo che quell’incontro per me sia stato una grande fortuna. Con lui ho capito ancora meglio la Luce e abbiamo fatto delle cose estremamente interessanti insieme. Ad esempio, nel 2004. quando era nel pieno della sua crescita professionale ed era già riconosciuto non solo come un fotografo, ma anche e soprattutto come un artista, ha tenuto un corso di fotografia in Viabizzuno, venendo apposta a Bologna, per stare insieme ai miei ragazzi; sono state cinque lezioni bellissime, estremamente profonde e intense che ci hanno arricchito tutti”.
“Un altro incontro importante: quello con AG Fronzoni (Angelo Giuseppe Fronzoni, grafico, designer, architetto e educatore, ndr). E poi quello con Peter Zumthor (architetto e premio Pritzker nel 2009, ndr), che sinceramente ho corteggiato per lungo tempo andando a seguire le sue lezioni a Mendrisio, convinto che fosse portatore di un valore davvero importante, quasi archetipico”.
“Come al solito i vari benpensanti mi dicevano ‘ma perché perdi due giorni di lavoro per seguire una lezione? quante lampade ai venduto? Quanto hai portato a casa?’ Risposta niente: i primi tempi Zumthor manco mi guardava di striscio (in effetti solo dopo ho scoperto che già allora mi aveva notato) da lì è nato un rapporto importante, soprattutto sulla base del suo pensiero sul ruolo della luce in architettura”.
“É nata anche l’idea di questa scuola che sto costruendo (oggi quasi terminata, ndr) pensata per gli scrittori della luce; i nostri lavori, come anche quello dell’illuminazione Porta Nuova a Verona (che abbiamo seguito in questo articolo su promisedlands) non sono dei semplici puntini su una carta geografica; i progetti devono essere il frutto di una lettura profonda e meditata della storia e della genesi dell’oggetto (non è importante che sia un’architettura o un’opera teatrale o un allestimento museale) che intendiamo illuminare”.
“La prima cosa che cerco di insegnare ai progettisti (ormai in Viabizzuno siamo in 50) è l’ascolto; se si è bravi ad ascoltare il cliente, il luogo allora tutto diventa più semplice. Ieri sera sono stato fino a mezzanotte a Reggio Emilia per montare una grande lanterna (chiamata lanterna massima, ndr) vicino al Teatro Comunale; prima di montarla, ho realizzato un prototipo di cartone, sono andato sul posto alla sera per capire se la scala dimensionato era corretta, se dovevo correggerla in qualche modo. Il nostro lavoro deve essere così, appassionato, artigianale e allo stesso tempo aperto all’ascolto di quello che luoghi e persone sono disposti a raccontarci”.
"Con soddisfazione constato che i giovani che vengono qui in studio da tutta Italia, lo fanno con l’entusiasmo di voler imparare e con grande sacrificio anche personale; soddisfazione non tanto (anche se è una componente) per un orgoglio personale, ma soprattutto perché capisco che c’è la voglia di imparare a fare un mestiere che io mi sono un po’ inventato, costruendolo tassello dopo tassello negli anni, che non è quello del lighting designer e neanche quello dell’architetto e neppure quello dell’ingegnere, ma quello di collegare i fili nascosti di un intervento, studiando la storia del posto e empatizzando con essa".
Non c’è un nome per questo mestiere o meglio ce ne sono tanti, ognuno adatto, ma nessuno esaustivo.
“Io credo che per i professionisti del mondo dell’architettura, del restauro e dell’arte, avere a fianco una persona che ti dia uno sguardo diverso, pur sinergico con il proprio sia qualcosa di straordinario, in grado di generare una somma che va ben al di là del valore dei singoli addendi.
Prima parlavo del valore dell’Ascolto: uno dei temi che alcuni amici spesso mi pongono è: ‘come fai tu a essere bravo a lavorare con John Pawson piuttosto che con Jean Nouvel?’. Una domanda più che lecita dato che uno realizza opere estremamente tecnologiche, mentre l’altro incarna l’essenza del minimalismo nell’architettura e nel design”.
“La risposta è, almeno dal mio punto di vista, molto semplice: basta ascoltarli, dialogando sono loro che mi dicono quello che vogliono, io non faccio altro che applicare la mia esperienza ai loro progetti. Loro ripeto: basta ascoltare la gente per capirne le esigenze e poi trovare le soluzioni e troppo spesso nessuno lo fa”.
È questo è il problema della società odierna che ha bisogno di apparenza, velocità e dinamicità (mal compresa): non ci si ferma ad ascoltare.
“Io, in centro a Bologna ho un museo che raccoglie i miei lavori più significativi (il museovirgola, in via santo Stefano, ndr); il nome stesso, ‘virgola’, racchiude anche il concetto dell’ascolto, un momento di pausa in cui è possibile riflettere e cogliere l’essenza delle cose, anche nei suoi dettagli".
“Un esempio? Sempre nell’allestimento della Luisa Miller, ho fatto spostare 20 cm verso l’alto una balaustra posta dietro il direttore d’orchestra. In molti mi hanno detto che venti centimetri non influenzavano la percezione dell’allestimento. Non sono d’accordo, ogni dettaglio conta, soprattutto se si cerca l’emozione del Nulla: gli spettatori a teatro si sono divertiti, hanno applaudito, ma a una domanda secca ‘perché vi siete divertiti?’ non saprebbero rispondere. E questo perché tutto era in armonia, in risonanza, in perfetta sinergia per il compimento di quel progetto".
“Quando ho cominciato a studiare e a proporre le mie idee per l’allestimento; i miei referenti nel teatro dicevano sempre ‘questo l’ha già fatto Bob Wilson, questo l’ha fatto tale regista e questo tal altro…’ Insomma mi sono chiesto: ma hanno già fatto tutto? Ben pensandoci, la risposta era ovvio che fosse positiva, dato che il teatro da sempre è lo spazio per eccellenza della sperimentazione. Confrontarmi con questo mondo, mi ha fatto crescere molto e da quello che ho imparato sono certo che trarre notevoli spunti per proporre idee nuove agli architetti con cui collaboro e con cui lavorerò in futuro”.
La contaminazione fra le arti è fondamentale, anche e soprattutto se non si è mai stanchi di sperimentare.
Oneri e onori di una voce fuori dal coro
Di fronte a una figura complessa, fuori dal coro e poco incline ad essere inserita in schemi preordinati, come quella di Nanni , una domanda, in relazione al rapporto con la Committenza ci sorge spontanea: quale sollecitazione ha rischiato di farle perdere il controllo, nel dialogo con il clienti? Quale è (ce n’è sempre uno) il nervo scoperto che insopportabilmente duole in un lavoro che nasce dalla passione che arriva, come abbiamo visto da lontano?
Risponde Nanni : “È una domanda che mi pongo spesso; io, come penso la grande maggioranza dei progettisti, ho come esempio più importante il Rinascimento italiano; ogni volta che sono incerto su come affrontare una tematica, mi rivolgo a quel periodo storico e trovo tutte le sollecitazioni progettuali che mi servono. Il progettista universale, quello di Leon Battista Alberti, ci indica la strada da percorrere; una strada che, partendo da artigiano, penso di essere stato facilitato a seguire: lavorando in cantiere, sono in grado di parlare la stessa lingua di un idraulico, di confrontarmi su un piano comune con un falegname, cosi come sono in grado di parlare con Anish Kapoor (scultore britannico di origine indiana ed irachena, ndr) , a cui ho progettato l’illuminazione della casa e che mi passava fisicamente i faretti per decidere la posizione migliore in cui metterli per illuminare la sua scala”.
“La società, questa mia competenza (non voglio chiamarla diversamente) non la capisce; il fatto che io possa fare della artigianalità un’opera d’arte non lo riesce (o vuole) a intendere; Il fatto poi che io abbia fatto l’imprenditore per una parte della mia vita da un certo tipo di persone non mi sarà mai perdonato. Nella loro logica, infatti, l’imprenditore per postulato non può essere anche un artista. Questo avviene soprattutto in Italia, all’estero questo talento mi viene più riconosciuto; anche il lavoro per la regia del Teatro di Bologna è un esempio, dicono ‘ti credi Dio perché vuoi fare tutto’”.
La mia risposta è: io non voglio far tutto, ma sono convinto che per quella regia, solo io posso fare i costumi, solo io posso decidere dove mettere il coro; se devo mettere la luce lì devo avere il controllo di tutti i dettagli.
“Il fatto di aver deciso di voler far tutto, non è per un sentimento di onnipotenza, ma per la volontà di poter fare un lavoro che sia completo. Questo preconcetto, che viene regolarmente fuori, anche troppo spesso per i miei gusti, è quello che, come dice lei rischia di farmi perdere il controllo”.
“Altro esempio: abbiamo parlato del museovirgola; tutti mi dicono perché non ti appoggi a una galleria, perché non partecipi ad Artefiera. Semplice: non è quello il mio modo di vedere le cose, non sono capace di fare un’opera (non voglio parlare di opera d’arte) fine a se stessa. Se una persona mi invita a casa sua e mi chiede un mio lavoro di luce, prima di cominciare, io devo guardare la sua casa, capire quali sono le sue abitudini, sapere paradossalmente anche quanti figli ha, andare insomma in profondità. Forse, sottolineo forse, allota potrò fare qualcosa per quella specifica casa".
“Il mio concetto di opera è quello di un lavoro che viene eseguito, come si faceva nel Rinascimento appunto, in modo specifico per quel luogo, per un cliente preciso, altrimenti sarebbe, almeno per me impossibile lavorare. Non sono capace dii mettermi lì a fare qualcosa per consegnare semplicemente una commessa , non ci riesco proprio. Io so cogliere, a volte, degli spunti che per lunghi ben determinati (e solo lì) funzionano: cose concrete e non concetti astratti applicabili in ogni situazione e in ogni luogo”.
“Oggi pensare a una figura come Leonardo da Vinci che prima progetta le chiuse per i Navigli e poi realizza la Gioconda e intanto immagina sistemi difensivi per gli Sforza sarebbe impossibile, siamo abituati a una affabulazione che inquadra l’artista all’interno di ben precisi criteri main stream. Se si va fuori, si rischia”.
“Il fatto che io abbia questa azienda, lo ripeto, il mondo dell’arte non me lo perdonerà mai. Devo essere sincero, non mi interessa granché, però sapere che c’è un preconcetto su questo aspetto è una cosa veramente allucinante”.
“C’è un’altra cosa che detesto nella narrativa main stream, in questo caso legata al mondo del design: in ogni pubblicazione, convegno torniamo sempre a parlare degli stessi Mostri Sacri (Castiglioni, Colombo, Magistretti, Ponti), personaggi straordinari che noi tutti dovremmo studiare, ma nel frattempo ci sono stati giovani che hanno fatto cose altrettanto interessanti con materiali nuovi e visioni contemporanee. So che è più semplice rifugiarsi nell’usato sicuro, ma un po’ di coraggio non guasterebbe”.
“A tal proposito, mi viene in mente una cosa: io ho due figlie, una di 23 e una di 22 anni; alle elementari nell’ora di storia studiavano i romani, alle medie, di nuovo i romani e indovinate alle superiori? Di nuovo l’Impero Romano. E poi i programmi si fermavano al massimo alla seconda guerra mondiale, con buona pace della Guerra fredda, della Perestrojka, delle Brigate Rosse, del Vietnam, dell’Afganistan e chi più ne ha più ne metta. Dopo la seconda guerra mondiale il Mondo è cambiato 10 volte e non si conosce la nostra storia recentissima non si può interpretare la contemporaneità; ebbene lo stesso capita, con mio grande fastidio, nella narrazione del design e (spesso) dell’architettura moderna”.
“Churchill diceva: ‘Hai nemici? Bene. Significa che ti sei battuto per qualcosa, a un certo punto della tua vita’. il detto va inteso nel senso che è meglio battersi per qualcosa rispetto a privilegiare il quieto vivere o a seguire il senso comune. É una filosofia che accetto, ma, ogni tanto diventa sinceramente frustrante, questa mancanza di volontà diffusa di uscire dagli schemi, di pensare fuori dal gregge”.
“Qualche sera fa ho mandato un messaggio a un amico architetto sulla ‘Passione che non ti fa sentire la fatica’; il giorno dopo mi ha risposto proprio tu parli di questo che hai fatto della passione la stella polare di ogni cosa che fai. Gli ho risposto che gli ho mandato quel messaggio perché ogni tanto, proprio per questo mi sento un anormale e cercavo un supporto di uno che la pensava come me. E poi è amaramente vero che ‘nemo propheta acceptus est in patria sua'”.
Ogni luce conta
Partendo dall’esempio del progetto di illuminazione di Porta Nuova a Verona, ci muoviamo anche nel difficile ambito dell’illuminazione dei monumenti e dei centri storici in generale; anche qui Nanni ha una ben precisa posizione e e la spiega con un aneddoto: “anche il lavoro dell’illuminazione della Porta Nuova di Verona è un incarico che abbiamo acquisito come un impegno etico; siamo abituati a sentirci dire tutti i giorni frasi del tipo il budget è davvero limitato o simili, però essere incaricati di illuminare la porta di una città come Verona, il primo oggetto che ci fa entrare a contatto di un tessuto urbano pieno di meraviglie, ci ha fatto superare tutti i problemi”.
"Soprattutto abbiamo cercato di farlo senza ottica di protagonismo; una delle mie otto regole per il corretto lavoro di scrittura della luce è quella della presenza/assenza. Presenza cioè di luce e assenza di corpi illuminanti percepibili. La sfida è stata questa, quella di definire la giusta intensità luminosa, ma anche il giusto riverbero, soprattutto nei lati laterali, in genere meno seguiti rispetto a quello che si incontra provenendo da Sud e muovendosi verso il centro della città”.
“Mi interessava che arrivando venisse percepito correttamente il monumento, un vero e proprio biglietto da visita per Verona; non doveva essere illuminato chiassosamente, ma soprattutto l’illuminazione doveva consentire di leggere al meglio l’architettura. Abbiamo quindi illuminato le volte sotto l’ingresso del ponte e abbiamo posizionato una luce tenue sulla facciata, frutto del posizionamento dei corpi illuminanti in uno scasso parallelo alla facciata stessa”.
“Illuminazione che ha seguito anche un'altra mia linea guida che riguarda l’inquinamento luminoso: i nostri edifici e, più in generale, i nostri centri storici devono mostrarsi per dare la possibilità ai turisti di ammirarli, ma lo devono fare per periodi di tempo ben precisi e ben individuati, lasciando poi vivere la notte, senza cancellarla in un eterno bagliore standardizzato”.
“In questo fatico non poco a trasmettere la mia opinione, soprattutto perché, anche a causa della filosofia contemporanea di dare in appalto l’illuminazione notturna delle città a enti terzi, si assiste a dei veri e propri scempi dovuti a una mancanza assoluta di progettualità”.
“Si privilegia la regolarità dei punti illuminanti, una regolarità però arida che non evidenza la qualità del tessuto urbano e le sue peculiarità. L’illuminazione in questi casi non tiene conto di fattori fondamentali quali la luminanza, l’abbagliamento; gli apparecchi illuminanti vanno messi dove servono. Un esempio positivo? Il centro storico di Venezia, dove i lampioni vengono messi negli angoli delle piazze, memoria storica di quando si dovevano evitare con la presenza delle fiaccole eventuali assalti di malviventi appostati appunto dietro l’angolo della strada”.
“Da qui la nostra certezza che ogni punto illuminante deve essere pensato e posizionato con l’obiettivo di guidare il passante da un punto all’altro della città, in sicurezza ed evidenziando lungo il percorso eventuali manufatti (facciate, pavimentazioni, portici) di particolare interesse. Non c’è bisogno della regolarità dei corpi illuminanti se il successivo sul nostro percorso è in vista e correttamente percepibile”.
“Il grande equivoco, in cui molti tecnici comunali ancora cadono, è che per avere la sicurezza nelle nostre città occorre la massima luce possibile, ovunque. La sicurezza arriva dal fatto che c’è molta gente che vive la città e questo accade quando la città non è illuminata come un campo da calcio, ma piuttosto quando le sue qualità vengono evidenziate da una illuminazione attenta e puntuale”.
“Un esempio che voglio fare arriva da Reggio Emilia; la piazza della città la sera è vissuta da persone che non parlano italiano (donne, uomini e bambini). Perché vanno prorpio lì? Perché trovano un posto bellissimo e, non potendo permettersi per ora di andare a cena fuori o in discoteca, lo vivono alla sera. Non c’è motivo che gli abitanti storici del luogo non ci vadano; non capisco perché non si riesca ad avere la volontà di integrarsi e di confrontarsi. Non c’è nessun buon senso nel non parlare con chi viene da fuori. Attenzione non parlo di sottostare a fenomeni di delinquenza che devono essere puniti con rigore, ma di integrazione con persone che sono qui per lavorare (e questo avremo sempre più bisogno)”.
"Anche in questo caso la scuola può far molto, ma deve essere riformulata una strategia che si adatti alle sfide del presente, ma soprattutto a quelle del futuro. I ragazzi di oggi hanno forse più senso del dovere di quelli della mia generazione, ma hanno bisogno di un’istituzione scolastica all’altezza, in grado di dar loro risposte e prepararli a confrontarsi con un mondo reale che improvvisamente diventato più grande e competitivo”.
Di nuovo torniamo ai concetti di ascolto e confronto costruttivo, che devono essere alla base di ogni nostro atto se vogliamo poter pensare, come italiani, ma anche come europei, di poter ancora recitare una parte importante nella costruzione del mondo futuro (e lo dice un ottimista sfrenato di natura).