Stratificata bellezza urbana
Nel cuore di una stretta viuzza di Seoul, su un lotto triangolare di poco meno di 60 metri quadrati, sorge il progetto intitolato Layered Building firmato da Atelier ITCH. Un’impresa che, nella costrizione del sito — due lati confinati da scale esterne che salgono verso i piani superiori del terreno circostante, la luce solare meridionale bloccata e la strada stretta che limita l’accesso — trova invece un’occasione per reinventare la sequenza spaziale.
Con una superficie di soli 98m2 e tre piani, l’edificio si sviluppa verticalmente in sette mezzi-livelli, in un volume compatto che assume la scala verticale come cuore narrativo. L’area utile è di 98m2, l’anno di completamento risale al 2025. Il lotto “triangolo”, più stretto alla base, diventa dunque “materia” di stratificazione: tre parti divise, una struttura a “split-floor” che massimizza continuità e apertura.


All’esterno la scelta architettonica parla con una voce intensa, ma controllata: il corpo appare come un bunker chiuso, rivestito in mattoni rossi, con aperture ridotte a una singola fessura verticale che attraversa la facciata dall’alto al basso, lasciando filtrare una lama sottile di luce. Il dettaglio della tessitura del mattone, con legature variate, introduce ombre e profondità, creando una superficie tattile e vibrante piuttosto che una semplice parete uniforme.
All’interno, le scale assumono il ruolo di protagoniste: attraversano i mezzi-livelli, diventano luoghi di transizione, collegamento e relazione tra piani. Non semplici elementi tecnici, ma parte integrante della poesia spaziale dell’edificio. Il progettista racconta che “il corpo triangolare è stato suddiviso in tre parti e innalzato mediante una struttura a split-floor per massimizzare la continuità e l’apertura”.
L’idea centrale — quella del “layering” — trasforma l’edificio in un volume che respira: 33m2 di area di piano possono essere percepiti come un unico spazio continuo grazie alla successione dei mezzanini, alla fluidità della circolazione e all’assenza di barriere visive rigide. In alto, un piccolo patio interno accoglie luce e aria, mantenendo la privacy, ma predisponendo un rapporto all’aperto: la costruzione celata ex novo diventa rifugio creativo e meditativo.
Nel dialogo tra protezione e apertura, l’architettura restituisce un carattere ambivalente: all’esterno chiusura, introspezione; all’interno slancio, relazione. Lo spazio del lavoro creativo del committente — “studio” all’ultimo livello — si affaccia sui livelli inferiori, protagonista e testimone della stratificazione. In un contesto urbano rinchiuso, la casa diventa fortezza e allo stesso tempo fucina di invenzione.
Il luogo — stretto, pressato da edifici adiacenti, privo di vista libera e luce diretta da sud — poteva essere un vincolo; anni di elaborazione hanno trasformato quel vincolo in identità. Così emerge la riflessione del team progettuale: non tanto “fare di più” in termini di metratura, ma “fare meglio” in termini di esperienza spaziale, intensità, relazione con la scala verticale e con la luce.

La lezione che sgorga da questo progetto è dolce e potente al tempo stesso: la compressione non è solo limite, ma stimolo alla forma; la stratificazione non è frammentazione ma legame; la scala non è solo elemento di collegamento ma di racconto. In questo micro-edificio trova spazio un universo denso di riflessione, luce tagliente, materiali rossi che accolgono l’ombra.
Così la “Layered Building” diventa più che un’abitazione o un atelier: diventa un manifesto di come l’architettura possa trasformarsi in paesaggio verticale, in sequenza, in luogo che invita a salire, a guardare, a meditare. In un mondo in cui lo spazio urbano si contrae e la densità cresce, qui si afferma un modo di abitare fatto di ritmo, introspezione e apertura invisibile.
Nel silenzio della viuzza sud-coreana, una fessura di luce e un mattone rosso raccontano che anche nella città compressa può germogliare la promessa dello spazio vissuto con attenzione.









